Cardiopatia ischemica: identificata la mutazione genetica

Pubblicato sul New England Journal of Medicine lo studio internazionale realizzato in collaborazione con l’università di Verona

Identificata la mutazione genetica che protegge dalla cardiopatia ischemica. La scoperta, pubblicata il 3 luglio sul “New England Journal of Medicine” la più importante rivista internazionale di medicina, è frutto del lavoro di un Consorzio internazionale di ricerca coordinato dall’Università di Harvard di cui fa parte l’Università di Verona. Il gruppo è quello della Cattedra di Medicina Interna B di Oliviero Olivieri del dipartimento di Medicina diretto da Antonio Lupo e composto da Domenico Girelli e Nicola Martinelli.

Secondo lo studio i soggetti portatori di queste varianti genetiche hanno un livello di trigliceridi nel sangue pari al 40% in meno dei non-portatori e un corrispondente 40% di rischio in meno di sviluppare patologie cardiache. Una caratteristica genetica che appartiene a una persona ogni 150. L’importanza della ricerca è stata messa in risalto anche dal New York Times con un articolo pubblicato il 4 luglio.

I risultati della ricerca

Dallo studio è emerso che solo una specifica frazione dei trigliceridi è pericolosa, quella costituita dalla proteina chiamata apolipoproteina C3 (Apo C3) che sta sulla superficie delle micelle lipidiche e che impedisce ad un enzima “spazzino” di ripulire il siero dalle micelle lipidiche stesse. Infatti, quando ognuno di noi mangia, dopo il pasto dall’intestino arriva al sangue una grande quantità di lipidi che devono essere eliminati dal circolo, captati dal fegato e rielaborati. Questo avviene nel giro di circa due ore grazie all’azione dello spazzino il cui nome scientifico è Lipoprotein-lipasi (LPL). Tuttavia vi sono dei sistemi di freno e di stimolo della macchina LPL. Apo C3 ha la funzione di “freno” e quando è elevata inibisce la funzione dello spazzino, mentre quando ve ne è geneticamente poca, come nei portatori delle varianti identificate nello studio, lo spazzino lavora al massimo e i livelli di trigliceridi si riducono significativamente.

Questo lavoro conferma, inoltre, il ruolo causale dei trigliceridi nella malattia vascolare arteriosclerotica. I risultati della ricerca rispondono infatti ai dubbi di molti studiosi che, negli ultimi anni, hanno contestato questo ruolo in quanto spesso alti livelli di trigliceridi si accompagnano a bassi valori di colesterolo “buono” (o HDL) e ad alti valori di colesterolo “cattivo“ (o LDL).

La ricerca apre nuove prospettive terapeutiche della malattia coronarica. Finora la base fondante di tale terapia è rappresentata dalle Statine, farmaci in grado di abbassare drasticamente il colesterolo e in particolare il colesterolo LDL. Benché esse siano farmaci efficaci nel ridurre gli attacchi cardiaci, molti loro utilizzatori mantengono elevati livelli di trigliceridi e vanno incontro comunque alla coronaropatia. Lo studio identifica così un nuovo bersaglio terapeutico, i trigliceridi ricchi di apoliproteina C3 che possono essere considerati un killer alla stregua del colesterolo LDL. Potrebbero essere definitivi anche “l’altro colesterolo” in quanto sono micelle che rimangono più a lungo in circolo favorendo così il danno allo stesso modo del colesterolo. Farmaci innovativi, come oligonucleotidi anti-senso anti-Apo C3, sono già stati sperimentati sugli animali e su volontari sani con risultati incoraggianti per il prossimo futuro. L’abbattimento dei valori di Apo C3 porterebbe a simulare la stessa condizione genetica osservata nei portatori delle varianti genetiche dello studio, ampliando quindi il numero di soggetti protetti dalla cardiopatia ischemica.

Il ruolo del gruppo di ricerca veronese

L’apporto del gruppo veronese in questo lavoro è stato particolarmente rilevante. È stato infatti recepito il lavoro che da anni si sviluppa a Verona all’interno del progetto “Verona Heart Study”, la biobanca dell’Università di Verona che dal 1996 ad oggi ha raccolto i campioni biologici di oltre 2600 soggetti. Un vero e proprio “capitale genetico”, frutto di un lavoro di campionamento di oltre una decina d’anni. L’unicità di questa biobanca non sta solo nella sua dimensione numerica ma soprattutto nell’essere composta dal Dna di pazienti che hanno avuto problemi cardio-circolatori lievi o gravi che in alcuni casi li hanno portati all’intervento chirurgico.

Grazie alla genoteca, sieroteca e al database del “Verona Heart Study” non solo sono stati confermati i dati dell’analisi genetica “esplorativa” eseguita sul Dna dei pazienti di Boston, ma è stato anche eseguito lo studio “fenotipico” sulla concentrazione sierica della proteina. La valutazione dei livelli di Apo C3 e, quindi, la conferma dell’ ipotesi di fondo, è stata possibile infatti solo sui pazienti di Framingham e su quelli di Verona a suggello e riconoscimento del ruolo primario nella ricerca svolto dal gruppo dell’ateneo.

Già nel 2002, tra i primi al mondo, il gruppo veronese pubblicava una serie di contributi internazionali che dimostravano l’importanza dell’Apo C3. In particolare, nel 2010, veniva per la prima volta dimostrato che tra i pazienti del “Verona Heart Study”, affetti da coronaropatia e che al momento dell’arruolamento presentavano alti livelli di Apo C3, la mortalità cardiovascolare era più alta e che l’Apo C3 era il predittore più forte di tale evoluzione sfavorevole. Tutti questi dati sono stati ampliati, rielaborati e accolti nella pubblicazione del “New England Journal of Medicine”.

Il lavoro condotto dal gruppo di ricerca scaligero ha anche delle ricadute pratiche, importanti in una ricerca genetica che può risentire dell’origine ancestrale della popolazione che ne è l’oggetto. Dal momento che i dati sono stati ottenuti su soggetti originari della regione Veneto, i risultati possono essere biologicamente applicabili e direttamente rilevanti per gli individui della collettività locale e, più in generale, per la popolazione del nord Italia.

 

 

 

 

 

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