Al cinema, da non perdere: gli sfiorati

Tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi sul cui sfondo appare una Roma caotica e inattesa, carica di sensazioni e sorprese mentre intorno si muovono i protagonisti e i loro amici, generazione che ha avuto tutto senza mai afferrare niente davvero.
Il libro è del 1990, nella versione cinematografica la storia è ambientata ai giorni nostri, Roma appare una bella città, ma tentacolare, borghese e corrotta. Protagonista è Mète, un esperto grafologo sempre alla ricerca di risposte comportamentali ed emozioni che si nascondono dietro la forma, dentro la dimensione della scrittura. Il giovane è ossessionato da Belinda, figlia di suo padre e di una donna amata da vent’anni, ma non è la mamma di Mète, che è morta da pochi mesi e lui è costretto a partecipare alle nuove nozze del genitore e a prendersi cura per qualche giorno della sorellastra. Imbarazzato e attratto dalla giovane ospite, si costringe fuori di casa occupato con i suoi amici Damiano, donnaiolo incallito e Bruno padre separato.
Il film racconta di un mondo statico, in cui ci si “sfiora” l’uno con l’altro, come zombie che si muovono stanchi senza mai andare avanti. Sebbene la confezione tecnica sia buona e il regista, Rovere, sia maturato rispetto ai lavori precedenti, c’è qualcosa che non convince e questo qualcosa è la sceneggiatura. Firmata dal regista stesso, Laura Paolucci e Francesco Piccolo, si sviluppa in maniera confusa, non aiutata dal lento ritmo narrativo che trascina lo spettatore nella noia. La colpa è forse anche dell’incapacità, di certo cinema nostrano, di proporre nuovi argomenti, vanno per la maggiore solo quelli che hanno per soggetto giovani abitanti in pieno centro storico o comunque in zone lussuose, poveri o ricchi che siano. Simbolo di una mentalità radical chic che attanaglia la cinematografia italiana, mai nulla di nuovo, ad ogni visione si ha sempre l’impressione di assistere ai lavori di Gabriele Muccino, il quale registicamente parlando sa dove piazzare la macchina da presa, e anche lui (o gli altri come lui, invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia) non ha nulla da raccontare se non “sfiorare” temi il cui peso in realtà dovrebbe essere maggiore e dunque ricevere un trattamento meno superficiale. Film che sicuramente per una fruizione leggera regalano qualche attimo di emozione, ma nulla di più. Nessuno sostiene che ci si debba aspettare un qualcosa di diverso da quello che in realtà sono, ma il problema è proprio questo e si torna al punto iniziale del discorso, riguardo al vuoto del cinema made in Italy. A Procacci e la sua Fandango va senz’altro riconosciuto di aver creato, in questi ultimi anni, un nuovo “genere” nel cinema italiano (anche Gli sfiorati guarda caso è Fandango) e vedendo che la formula funziona perché non riproporla in continuazione? Meglio fermare la “critica” qui, altrimenti ci si allargherebbe troppo, invadendo terreni ben più ampi come la sociologia, ma una certezza c’è ed è che siamo un popolo di bassa elevazione culturale, anzi (cosa ben peggiore) con scarsa istruzione ed è dunque facile conquistare, con qualche accorgimento, una massa di incolti. In fondo perché no, ognuno ha quel che si merita e la cinematografia che si merita. Sicuramente è sbagliato avvicinarsi alla visione di un film caricandolo di aspettative, quando si sente dire “bah, mi aspettavo…” ecco questo è l’errore in cui facilmente si può cadere, ma i film devono osservati e “vissuti” per quello che offrono e solo con questo tipo di fruizione si può poi formulare un giudizio al riguardo, che nasce ovviamente dai nostri gusti, dalle emozioni scaturite e tanto altro.
Da questa pellicola non è che ci si aspettasse qualcosa di diverso da quello che è, già i cartelloni pubblicitari fanno intuire che se scegliamo di vederlo sarà una sorta di L’ultimo bacio 2, ma è proprio questo che avvilisce. Chiarito ciò, ponendoci in maniera adeguata di fronte a Gli sfiorati si apprezza il cast e spiccano, fra questi rappresentanti della confusione dei giovani, Claudio Santamaria, Michele Riondino e Andrea Bosca. Il primo rivela ancora una volta la sua precisione nell’approfondire il ruolo scavando ovunque nel film, il secondo enfatizza la libido e riconferma la verve seduttrice, mentre il terzo è un perfezionista della “singolarità” che già in Noi credevamo, il Risorgimento di Martone, era apparsa.
Il regista descrive una generazione di giovani allo sbando: edonisti, inconcludenti, confusi, i così detti “sfiorati” perché vivono ogni situazione, divertente o drammatica che sia, con superficialità. Nulla li sconvolge e nulla li coinvolge, vivono senza ideali, sogni o ambizioni, si tratta dunque di una “sopravvivenza” trascinata un giorno dopo l’altro, osservatori distratti delle loro stesse vite. La struttura filmica è come i protagonisti, gira su se stessa senza approdare a nulla, certo c’è una forte provocazione, ma Rovere non riesce a sviluppare una storia vera.
Doveroso ricordare: siamo proprio sicuri che i giovani d’oggi siano così? E’ facile generalizzare una generazione, ma non si deve guardare solo ad uno spicchio di questa, appartenente ad una certa “elitè”, perché il cinema italiano continua a porre l’accento sempre e solo sulla gioventù “sbagliata” e non osserva e racconta i giovani altruisti, colti e sognatori?
A questo link il trailer ufficiale della Fandango
 

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